DANIEL LIBESKIND, il Museo Ebraico di Berlino e di Copenhagen – Due capolavori all’opposto
Archistar del nostro tempo, la visione di Libeskind si esprime nella sua completezza con la realizzazione del Museo Ebraico di Berlino e Copenhagen.
Daniel Libeskind è considerato un maestro per il suo stretto rapporto con la storia e la sua frammentazione, capace di legare la sua idea concettuale di architettura e design a elementi formali, culturali e simbolici.
“Prima di tutto vorrei dire che l’architettura riguarda sempre la memoria, non esiste architettura senza memoria, l’architettura non è un esercizio formale di scultura, particolarmente in progetti che hanno a che fare con tragedie, con eventi che plasmeranno il nostro futuro.
Bisogna saper comunicare attraverso il linguaggio dell’architettura, che è il linguaggio della luce, il linguaggio dei materiali, delle proporzioni, il linguaggio dell’acustica. Per questo la storia deve essere presa in considerazione seriamente, la storia ci insegna e la memoria per un’opera di architettura, specialmente in edifici che hanno a che fare con essa, non è solo un questione secondaria ma un aspetto fondamentale perché senza memoria noi saremo completamente perduti.” Daniel Libeskind
Nel 1989 Libeskind vince il concorso internazionale (a cui pervennero 165 proposte) per la progettazione dello Jüdisches Museum di Berlino.
Between the Lines è il nome che Daniel Libeskind ha dato al suo capolavoro per eccellenza, anche dal punto di vista ideologico: il Museo Ebraico di Berlino. Inaugurato nel 1999 come ampliamento di un antico edificio risalente alla metà del ‘700, il nuovo Museo Ebraico, il più grande d’Europa, è concepito con una pianta a linea spezzata, dagli angoli acuti, che interferisce con una linea retta e il tutto rimanda alla Stella di Davide, scomposta e frammentata. Due linee in tutto ma che si incrociano cinque volte.
La costruzione è un tipico esempio di architettura parlante, dove i volumi e gli spazi architettonici hanno il compito di narrare la storia della vita ebraica di Berlino.
Il rivestimento esterno dell’edificio è completamente coperto in zinco e titanio, elementi che lui utilizza abitualmente in modo da creare superfici translucide e completamente riflettenti e al tempo stesso totalmente chiuse, interrotte solo da piccole finestre che, come piccole feritoie, penetrano la facciata; questi tagli fanno parte della sua poetica, in questo caso le finestre-fessure seguono uno schema preciso: ricalcano la posizione, identificata su una mappa della Berlino pre-bellica, delle case dove abitavano importanti cittadini ebrei e tedeschi.
L’interno è concepito con le varie parti lasciate ad invaso unico collegate da scale e passerelle dal significato simbolico di un’ascesa verso la speranza.
“I vuoti verticali definiti da pareti in cemento sono in corrispondenza dei punti di intersezione. Essi sono lasciati vuoti, non riscaldati e poco illuminati e rappresentano ciò che non può mai essere esposto quando si tratta di storia ebraica di Berlino: l’umanità ridotta in cenere.” Daniel Libeskind
L’interno ha un percorso a zig-zag, la reception è caratterizzata da finestre messe in diagonale che creano interessanti giochi volumetrici. I pavimenti, mai a piombo ma sempre con una certa inclinazione, le alte pareti, spesso inclinate, creano passaggi simili a strettoie e la luce, che arriva dall’alto sono tutti elementi narranti che provocano un senso di costrizione nel visitatore. Non vi è infatti nessun angolo, nessuna prospettiva, all’interno del museo, da cui sia possibile avere uno sguardo complessivo e omogeneo dell’ambiente.
in uno dei “vuoti”, passaggio obbligato, è situata su tutto il pavimento l’installazione “Shalechet” – Foglie cadute – di Menashe Kadishman, dedicata a tutte le vittime di guerre e violenze, costituita da 10.000 dischi in metallo, staccati uno dall’altro, ogni disco porta ritagliati e con le stesse dimensioni dei volti umani, il frastuono impressionante provocato dal calpestio dei visitatori sui dischi di metallo, incrementa la sensazione d’angoscia.
All’esterno di trova il Giardino dell’Esilio, costituito da 49 blocchi in cemento di diverse misure, il numero fa riferimento al 1948 anno della nascita dello Stato d’Israele mentre il 49esimo blocco rappresenta la stessa Berlino, i blocchi sono posizionati su una superficie inclinata di 12 gradi concepita per creare nel visitatore un senso di sbilanciamento, di instabilità; sulla sommità dei blocchi di cemento sono stati piantati degli ulivi, simbolo della pace.
Assolutamente geniale è anche la soluzione che Libeskind ha realizzato nel 2007 per la creazione di nuovi spazi in grado di ospitare eventi speciali, concerti e spettacoli. Sul cortile antistante l’antico edificio del Museo Ebraico, ha creato una struttura trasparente, The glass courtyard, in vetro e acciaio ispirata alla Sukkah ebraica; questa struttura, autoportante, con la sua trasparenza rende visibile l’antico edificio pur fornendo lo spazio flessibile desiderato.
Diversamente dallo spirito del Museo Ebraico di Berlino, il Museo Ebraico di Copenhagen è uno spazio estremamente luminoso e allegro, in questo caso emerge un altro elemento ricorrente di Libeskind: l’importanza della parola scritta.
Le quattro lettere ebraiche, מצוה che significano mitzvah in questo senso traducibili con “buona azione” sono utilizzate dall’architetto per dare forma allo spazio architettonico del Museo. Un omaggio ai Danesi che intervennero massicciamente per salvare i propri connazionali dalla deportazione.
Inaugurato nel 2004, Daniel Libeskind fa parlare anche questa volta la sua architettura raccontando la storia del salvataggio dall’Olocausto di 7000 ebrei danesi, che riuscirono a rifugiarsi in Svezia a bordo di pescherecci. L’interno del museo è un continuo rimando a quell’episodio: le pareti dai piani inclinati, l’utilizzo del legno di quercia, legno con il quale erano costruite le barche, le installazioni d’acqua e il pavimento irregolare, costituito da assi in legno, sono tutti elementi che trasmettono ai visitatori la sensazione di essere su una barca. L’intera struttura è inserita all’interno dell’antica Danish Royal Library, che, con i suoi soffitti a volta in mattoni, crea un dialogo dinamico tra l’architettura passata e quella futura.
©Giusy Baffi 2020 (pubblicato su ArteVitae.it il 28 febbraio 2018)
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