L’arte del presepe è un’arte antica. Nato per rappresentare il racconto evangelico, originariamente intriso di pura spiritualità ed esclusivamente presente nelle chiese, si trasforma e si evolve con il passare degli anni in una simbolica allegoria di una realtà nella quale si fonde il sacro con il profano, dove l’impianto scenografico trova sempre al centro la grotta o la mangiatoia dove riposa il Bambino e verso cui convergono pastori e Re Magi, oltre ad innumerevoli personaggi con animali e oggetti d’uso quotidiano in un caleidoscopio di motivi, credenze e forme dell’immaginario popolare.
Il Settecento fu il periodo d’oro del presepe e Napoli fu la città che più e meglio delle altre riuscì ad esprimere questo fenomeno culturale.
Gli artisti napoletani, e in particolare Michele Perrone vissuto a metà del ‘600 che realizzò il primo pastore con l’anima in ferro ricoperta di stoppa e solo la testa e gli arti scolpiti dando in questo modo movimento, duttilità, veridicità e naturalezza alle scene, trasformarono il presepe nello specchio di un’epoca: mescolando elementi sacri e profani, reali e mitici, rappresentando la miseria di un popolo in contrapposizione allo sfarzo della corte in una commistione tra epoche diverse ed introducendo elementi capaci di stimolare la fantasia e l’immaginazione di chi li osservava.
Anche le scoperte archeologiche di Ercolano e Pompei, cominciate negli anni trenta, influenzarono il presepe arricchendolo di componenti simboliche e culturali nuove. Così con il tempio in rovina accanto alla grotta, si voleva indicare il trionfo del cristianesimo sul paganesimo; gli angeli annunciano alle persone semplici e umili la nascita di Cristo che li avrebbe riscattati dalla loro posizione di miseria e povertà, mentre lo sfarzo e l’oro dei Magi, col loro ricco corteo, contribuiva ad alimentare il desiderio di conoscenza e il gusto del nuovo e dell’esotico tipico dell’epoca.
Famosi a livello internazionale sono il presepe del Banco di Napoli esposto nel Palazzo Reale di Napoli, sontuosa composizione fatta da 210 figure e 144 accessori, la maggior parte creati da artisti del calibro di Angelo Viva, Lorenzo Mosca, Salvatore Franco, Sammartino e i Celebrano, e il famosissimo presepe del Museo della Certosa di San Martino allestito nel 1879 donato da Antonio Cuciniello: le figure e gli oggetti sono databili tra il 1750 e il 1850, le scene furono ideate dall’architetto Niccolini, da Luigi Farina e dallo stesso Cuciniello, passando nella composizione dal pathos del drammaturgo Luigi Masi. Ultima cosa da sottolineare è che nel presepe napoletano ogni oggetto, ogni personaggio ha una doppia valenza più allegorica che decorativa con le figure poste secondo uno schema altamente simbolico.
In Sicilia furono quattro i centri principali di diffusione dell’arte presepiale: Palermo, Siracusa, Caltagirone e Trapani.
Sia a Palermo che a Siracusa era fiorente l’apicultura e fin dal ‘600 veniva utilizzata la cera per plasmare non solo il Bambinello ma l’intero presepe, erano infatti chiamati “I bambiniddara” gli artisti che tra il ‘600 e il ‘700 riuniti in maestranza operavano a Palermo, in botteghe in una strada dietro la Basilica di San Domenico.
Nell’800 sono rinomati i “cerari” siracusani, anch’essi specializzati nell’arte del presepe e del Bambinello. Alcuni esempi di presepi in cera sono tutt’ora presenti presso l’Eremo di San Corrado a Noto e nel museo Bellomo di Siracusa. A Noto, nel palazzo Vescovile è conservato un presepe con 38 figure con lo sfondo del paesaggio dei Monti Iblei.
L’abate Gaetano Giulio Zumbo (Siracusa, 1656 – Parigi, 1701) è stato quasi certamente tra i più celebri ceroplasti siciliani.
A Caltagirone intorno all’800 le figure dei pastori vengono realizzate interamente in terracotta. Nella ricca produzione locale si possono individuare un filone colto ed uno popolare. Al primo filone appartengono i maestri ceramisti Giacomo Bongiovanni (1772-1859) Giacomo Azzolina (1854-1926) e soprattutto il celebre Padre Benedetto Papale (1837-1913) autore di straordinarie scenografie presepiali.
Presepe Caltagirone
Il secondo filone, destinato alle classi meno abbienti, è caratterizzato dalle figure lavorate e dipinte rozzamente esclusivamente nella faccia anteriore, nonché dai costumi e dalla umiltà dei doni.
A Trapani l’arte di lavorare i coralli raggiunge il suo apice tra il ‘600 e il ‘700 periodo nel quale i maestri corallari utilizzano la tecnica della “cucitura” ossia l’uso di piccoli frammenti di corallo che vanno a formare il partito decorativo cuciti sul retro di una lamina e sostenuti da perni. La raffinatezza e la maggior nitidezza delle figure è dovuta all’utilizzo del bulino, anziché dello scalpello, tecnica adottata già nel ‘500 da Antonio Ciminello. I presepi trapanesi si distinguono per l’utilizzo di materiali nobili e quindi non solo il corallo ma anche la madreperla, l’avorio, l’argento, l’alabastro pur senza disdegnare le conchiglie e l’osso. Splendidi esemplari sono custoditi nel Museo Pepoli di Trapani e al museo Antonio Cordici di Erice. Tra i più grandi artefici è da ricordare lo scultore Andrea Tipa (1725 -1766) che, oltre ad eccellere nella scultura monumentale, riusciva in maniera egregia anche nella scultura miniaturizzata di stupende composizioni presepiali per le quali prediligeva l’utilizzo di tutti i materiali nobili in uso a Trapani. Per comprendere maggiormente l’uso del corallo è bene soffermarsi sul suo forte significato simbolico, esso infatti già nell’Antico Testamento simboleggia le eccelse virtù dell’uomo, la purezza e la bellezza, per l’antica Grecia è il sangue della Gorgone Medusa, uccisa da Perseo, che scorrendo dalla testa recisa si pietrifica sugli arbusti su cui essa è appoggiata, testimoniando la vittoria della vita sulla morte, per il Cristianesimo il corallo è associato al sangue di Cristo, divenendone simbolo della passione e della resurrezione.
Presepe di corallo – Museo Pepoli – Trapani
©Giusy Baffi 2019 (pubblicato su Antiqua.mi dicembre 2009 e, in versione ridotta, su Artevitae.it. 14 dicembre 2017)
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